Attaccamento infantile e criminalità: come il legame con il caregiver può innescare uno sviluppo deviante
Pubblicato da Monica Chiovini in Psicologia forense · Mercoledì 10 Gen 2018
Il bambino è il padre dell’adulto. Così, in queste parole, si può esprimere il succo della Teoria dell’Attaccamento, introdotta da John Bowlby nei lontani anni cinquanta e riconosciuta, con grande apprezzamento, fino a tempi odierni. Osservandoci a ritroso, come in uno specchio, ci accorgeremo che noi siamo oggi il risultato di esperienze, sentimenti ed affetti vissuti in passato con i nostri caregivers. In tal modo, infatti, hanno operato i ricercatori interessati a valutare l’attendibilità scientifica dei presupposti teorici presentati dall’autore psicoanalista, ovvero procedendo all’inverso quindi indagando in soggetti maturi i loro ricordi infantili, oppure, elaborando ipotesi predittive circa lo sviluppo del fanciullo partendo dalle modalità di accudimento genitoriale ricevute.
Prendersi cura di un bambino implica un duro lavoro, che richiede notevole attenzione e suscita anche molte preoccupazioni; secondo Bowlby (2008) infatti, adulti e adolescenti sani, dotati di fiducia e sicurezza in sé stessi nonché capaci di amare, sono il prodotto di famiglie stabili in cui entrambi i genitori dedicano una grande quantità di tempo ai figli. Egli, inoltre, sottolinea come crescere un neonato, è un compito impegnativo che deve essere diviso e condiviso: chi fornisce le cure ha bisogno, a sua volta, di molta assistenza. Si riconosce per cui l’importanza, nella maturazione fisica e psicologica del minore, del ruolo giocato non soltanto dalla figura materna (solitamente il caregiver principale) ma anche dal padre e dai nonni.
Nella norma, quando una madre culla in braccio il suo bambino di poche settimane e quest’ultimo la guarda, si innesca una sorta di interazione sociale reciproca, costituita da espressioni facciali, gesti e vocalizzi che segnano la nascita di un legame affettivo, appunto dell’attaccamento. In tale processo, il fanciullo assume un ruolo attivo e competente: egli possiede una tendenza innata ad instaurare una relazione con l’altro, l’adulto che si occupa di lui.
Assumendo di riferimento il pensiero di Bowlby, quindi, l’attaccamento rappresenta un impulso primario di affetto e socialità che spinge il neonato, sin dalla nascita, ad interagire con il caregiver. Per l’autore, tale pulsione è paragonabile ad un bisogno di sopravvivenza, che non risponde soltanto ad un’esigenza biologica di fame, come sosteneva invece Freud, ma si manifesta contemporaneamente ad essa: il bambino si attacca al seno materno per gratificare questo desiderio di amore e, nello stesso tempo, riceve anche il cibo necessario alla sua crescita fisiologica. Se nella visione psicoanalitica classica, il legame del piccolo con la figura di accudimento veniva considerato esclusivamente una conseguenza della funzione nutritiva, nell’era post-freudiana diviene centrale la relazione sociale tra madre e bambino, presupposto del suo sviluppo psicofisico verso una direzione normale. Come definisce Mary Ainsworth (cit. in Bowlby, 2008), infatti, il caregiver deve rappresentare una “base sicura” per il fanciullo, dalla quale gli è concesso di allontanarsi per esplorare il mondo circostante ed alla quale può far ritorno nel momento in cui avverte un pericolo, ritrovando sempre un luogo protetto dove ricevere sostegno. Tale ruolo che la figura materna è chiamata a rivestire, già veniva descritto da Winnicott con il concetto di “madre sufficientemente buona” (cit. in Blandino, 2009): non perfetta, ma in grado di rispondere empaticamente ai desideri di amore e riconoscimento da parte del figlio, supportandolo e dialogando con lui nei momenti di maggiore insicurezza.
Una componente fondamentale del sistema cognitivo e affettivo di un soggetto è costituita, inoltre, dai cosiddettiModelli Operativi Interni(Bowlby, 2008), ovvero rappresentazioni mentali di sé e della relazione con gli altri, la cui qualità positiva o negativa va strutturandosi nel corso delle esperienze vissute in prima età all’interno dell’ambiente familiare, le quali influenzeranno appunto le abilità sociali adulte. Da ciò si evince come i M.O.I. risultano anche predittori di eventuali disturbi o disagi psichici. Si deve infatti a due note autrici, la già citata Mary Ainsworth (1978) e la seguace Mary Main (1985), psicologhe infantili, il merito di aver individuato, introducendo rispettivamente le metodologie Strange Situation e Adult Attachment Interview, gli stili di attaccamento che possono svilupparsi nella diade madre-bambino (cit. in Blandino, 2009).
La prima ha distinto tre categorie di minori, sulla base delle risposte affettive che essi mettono in atto di fronte ai comportamenti dell’adulto: sicuri, insicuri-evitanti, insicuri-ambivalenti. Il tipo sicuro è quello che gode di una figura di accudimento solidale ed empatica; manifesta inoltre curiosità e interesse nell’esplorare il mondo autonomamente e ricerca l’abbraccio nei momenti di contatto con la madre. L’attaccamento insicuro-evitante descrive, invece, un legame con quest’ultima fondato sul suo rifiuto nei confronti del figlio; per cui il piccolo, consapevole che non può fidarsi, mostra apatia e distanziamento. Bambini insicuri-ambivalenti, infine, sono coloro nei quali predomina un rapporto imprevedibile con il caregiver, che alterna momenti di affetto con altri di totale assenza emotiva; nella loro crescita, ricorrono maggiormente sentimenti di rabbia e sfiducia nelle proprie capacità. Dagli studi sulla Strange Situation, dunque, è emerso che la modalità delle cure genitoriali determina la qualità dell’attaccamento nel figlio. A partire da tale considerazione si è mossa successivamente la Main, arricchendo i tre stili di attaccamento individuati dalla collega con un quarto, definito disorganizzato, nel quale il fanciullo presenta reazioni incoerenti frutto di possibili traumi vissuti o proiettati su di lui dal genitore nella cui mente sono rimasti ancora irrisolti. Non solo, la studiosa ha fornito un notevole contributo nella teoria dell’attaccamento, anche individuando cinque tipologie di accudimento adulto, derivate dalle esperienze infantili con i propri genitori e reiterate nell’approccio con la nuova prole: modello sicuro,distanziante, preoccupato, irrisolto ed inclassificabile.
Queste teorizzazioni portano all’opinione condivisa, secondo cui cure e relazioni disfunzionali all’interno della famiglia d’origine, caratterizzate da abbandono, trascuratezza o, nei casi peggiori, maltrattamento, inducono con molta probabilità alla genesi di altrettanti comportamenti antisociali ed atteggiamenti disadattivi in età matura. Bowlby (2008), a tal proposito, afferma “la violenza genera violenza, la violenza nella famiglia tende a perpetuarsi da una generazione a quella successiva”, e prosegue spiegando come bambini vittime di gesti e parole poco dignitose saranno adolescenti difficili nonché mariti e padri aggressivi che, nel prendersi cura dei propri figli, sceglieranno di adottare i medesimi schemi educativi.
Premettendo che non si debba generalizzare (molto spesso, è possibile interrompere questo circolo vizioso e garantire un futuro più adeguato alle successive discendenze), a fronte di rifiuto affettivo o abuso fisico da parte dei caregivers, il bambino tende ad identificarsi con l’aggressore e ad esercitare a sua volta atti coercitivi verso gli altri. Condotte di questo tipo, accompagnate da sentimenti di tristezza, collera, impulsività e freddezza emotiva, si riscontrano tipicamente nelle personalità di autori di crimini violenti. I casi clinici (Skodol, 2000; Dazzi, Madeddu, 2009), infatti, riportano nello specifico modelli di attaccamento insicuri, distanzianti o disorganizzati in soggetti affetti da tratti narcisistici e psicopatici, nei quali traspare un mancato sviluppo dell’empatia quindi una tendenza sadica ad infliggere dolore alla propria vittima. Vissuti infantili trascorsi con padri alcolisti che ricorrevano a punizioni di tipo corporeo, correlano frequentemente con storie di escalation antisociale fino alla colpevolezza di omicidio. Un gran numero di donne poi, che picchiano i figli, sono state a loro volta maltrattate durante l’infanzia o possiedono un ricordo della madre quale figura assente: quest’ultime svelano un costante bisogno di dipendenza, in evidente contrasto con la rigidità e difficoltà ad instaurare relazioni positive.
Secondo Melanie Klein (cit. in Dazzi, Madeddu, 2009), a tal proposito, i soggetti mostrano tendenze asociali e criminali mettendole continuamente in atto, quanto più hanno interiorizzato rappresentazioni aggressive e vessatorie dei loro genitori. Il deviante, dunque, preda di tale violenza innata, sarebbe mosso da un desiderio di possesso e di distruzione dell’altro nonché da un sentimento di invidia, la cui manifestazione avviene attraverso comportamenti svalutativi e manipolatori, finalizzati a confermare ulteriormente il proprio senso di grandiosità. Da ciò si evince come, non poco frequentemente, vite adulte impostate sulla delinquenza rappresenterebbero la conseguenza di percorsi evolutivi caratterizzati da deprivazione affettiva, mancata sicurezza e fiducia, abbandono o maltrattamento fisico da parte dei caregivers.
Autore: dr.ssa Monica Chiovini
Riproduzione riservata
Bibliografia
BLANDINO Giorgio, Psicologia come funzione della mente. Paradigmi psicodinamici per le professioni di aiuto, UTET Università, 2009.
BOWLBY John, Una base sicura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.
BONINO Silvia, Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi Editore, Torino 2006.
DAZZI Sergio, MADEDDU Fabio, Devianza e antisocialità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
RIVA CRUGNOLA Cristina, Il bambino e le sue relazioni. Attaccamento e individualità tra teoria e osservazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
SKODOL Andrew E., Psicopatologia e crimini violenti, Centro Scientifico Editore, Torino 2000.