La menzogna: indizi verbali e non verbali nell’interrogatorio del sospettato
Pubblicato da Monica Chiovini in Psicologia forense · Giovedì 15 Dic 2016
“Nessun mortale può mantenere un segreto: se le labbra restano mute, parlano le dita” (Freud, 1967 cit. in Mastronardi, 2010). Già Freud, in questo aforisma, nell’ormai lontano millenovecento, riconosceva come la comunicazione interpersonale non si basa esclusivamente sulle parole dette; dietro ad esse, si cela un mondo nascosto di messaggi non verbali che, ad un’attenta osservazione, possiamo cogliere attraverso tutti i pori della nostra pelle. Prima di lui, Cesare Lombroso (1897, cit. in Mastronardi, 2010) aveva introdotto il concetto di uomo delinquente, ovvero l’individuo, sin dalla nascita, porta i segni fisionomici di una personalità menzognera ed ingannatrice. Concezione oggi non del tutto convalidata, ma comunque di riferimento, in campo criminologico, nello studio degli indizi corporei più sovente associati ad una dichiarazione falsa. La comunicazione, infatti, si sa, non risulta sempre onesta e veritiera, a volte si mente inconsapevolmente per un difetto nel ricordo degli eventi, altre si omette, altre ancora si dice una bugia intenzionalmente. La menzogna è una componente insita nei rapporti sociali, di qualunque tipo essi siano (familiari, affettivi, lavorativi, giudiziari,…), mascherata o evidente, si esprime attraverso segnali sia verbali sia non verbali.
La capacità di identificare e scoprire la falsità nonché riconoscere le manifestazioni, soprattutto fisiologiche, dell’impostore risulta competenza pertinente e necessaria a chi ricopre ruoli professionali quali il poliziotto, l’investigatore, l’avvocato, lo psicologo e il criminologo: professionisti che spesso si trovano di fronte ad una clientela il cui intento è proprio quello di ingannare l’interlocutore. Doveroso, è però sottolineare la cautela nel compiere un’analisi di tal genere, sia nei vari contesti della vita quotidiana sia specificatamente nelle indagini forensi, per evitare così errori di valutazione (a volte, il soggetto che ci sta parlando e nel frattempo sbatte forte le ciglia, non ci vuole né sedurre né ingannare, ma semplicemente soffre di fastidio da lente a contatto).
La menzogna può essere definita, quindi, come frutto dell’influenza di più variabili: fattori situazionali (utilità, vantaggi, conflitto tra soggetti, prevedibilità), caratteristiche personali del mittente (valori etici, età, tratti psicopatici e antisociali di personalità) ed interpretazioni soggettive del ricevente (opinioni, pregiudizi, grado di sospettosità e capacità di svelamento). Per riconoscere le sue manifestazioni, risulta fondamentale osservare il comportamento non verbale del nostro interlocutore, in quanto rappresenta la componente della comunicazione più difficile da controllare, inoltre costituisce il 93% del messaggio trasmesso (percentuale di cui il 38% deriva dalla voce mentre il 55% dal linguaggio corporeo) a dispetto delle parole che rappresentano solo il restante 7% (Miconi, 2009).
In ambito forense, segnali di menzogna possono provenire da colui che è sospettato di aver commesso un reato e quindi sottoposto alle indagini investigative. In particolare, nel momento dell’interrogatorio del presunto reo, o anche durante il colloquio con la vittima (se superstite) e con i testimoni, gli inquirenti supportati eventualmente da uno psicologo specializzato in materie criminologiche, hanno il compito primario di capire se il soggetto in questione sta riportando una ricostruzione del fatto vera (attendibile e accurata) o falsa. L’impostore infatti, afferma il falso e nega il vero, perciò cerca di sopprimere le proprie emozioni (quali, ad esempio, la paura di venir scoperto, l’ansia, la rabbia, la vergogna) e tutte quelle espressioni esterne che possono tradire l’atto di mentire. Nonostante la sua volontà, tuttavia, risulta difficile per l’uomo avere un controllo completo della comunicazione: egli presta maggiore attenzione alle parole pronunciate, riducendo così l’influenza su voce, corpo e volto in quest’ordine. I periti chiamati a valutare la testimonianza, dunque, dovrebbero ascoltare il tono vocale dell’interrogato, meno controllabile; osservare i movimenti degli arti nonché delle mani, dei piedi e del busto, anch’essi affidabili canali di identificazione della menzogna; ed infine cogliere i cambiamenti facciali.
Comunemente, si ritiene che il soggetto mendace appaia frenetico, impacciato, rosso in volto, in evidente stato di tensione e disagio, con la tendenza a balbettare nonché a distogliere lo sguardo dall’interrogante. In realtà, dalle numerose ricerche emerge come il bugiardo esperto si presenti più statico nelle movenze rispetto a colui che dice la verità: si dimostra, a questo proposito, efficace cogliere alcune sottili alterazioni nella posizione delle gambe, nella mimica e nella gestualità. Si tratta di microespressioni descritte da Ekman (2011) come valevoli indizi, di brevissima durata, che lasciano trasparire sul volto e nel corpo del sospettato il passaggio da un’emozione all’altra, istante nel quale risulta più difficile il controllo delle espressioni di paura. Utile supporto agli inquirenti per capire se il soggetto sta mentendo, la rilevazione delle microespressioni può avvenire mediante un’osservazione accurata da parte del perito (meglio se diverso dall’interrogante), oppure per mezzo di strumenti di audio-video registrazione che consentono un’analisi a posteriori di quanto emerso nell’interrogatorio.
Nello specifico, indici comportamentali di menzogna sono l’aumento dei sorrisi (si veda box) e dei gesti adattatori ovvero segnali, quali ad esempio toccarsi una parte del corpo con l’altra (più frequentemente, la bocca con la mano, le labbra con la lingua), grattarsi il naso, strofinarsi la fronte, sistemarsi il colletto della camicia, che lasciano trapelare la ricerca di sicurezza in un momento di disagio emotivo; la riduzione degli sguardi verso l’interlocutore; una maggiore sudorazione. Ad essi, si aggiungono poi, i cosiddetti segnali vocali non verbali: tono di voce innalzato, velocità dell’eloquio ridotta, silenzi, pause, esitazioni e ripetizioni. Dal punto di vista verbale, invece, indizi che insinuano il dubbio di una manipolazione da parte del soggetto indagato si riscontrano in un discorso contenente frasi brevi, poco coerenti, prive di riferimenti spazio-temporali e di descrizioni dettagliate; i contenuti ridotti appaiono, inoltre, accompagnati da un’eccessiva gentilezza nei confronti dell’esaminatore oltre che da un esagerato tentativo di voler collaborare con la polizia per risolvere il caso.
A questo punto, è lecito domandarsi se un professionista operante nel campo forense possieda una spiccata capacità di scoprire le menzogne; in realtà, non è ancora stata dimostrata una correlazione significativa tra ruolo professionale del poliziotto o del criminologo e abilità di svelamento. L’esperienza, tuttavia, nonché lo studio degli aspetti più di frequente indice di inganno e l’osservazione allenata dei movimenti corporei, costituiscono ottime risorse di aiuto nel giudizio sulla veridicità di una testimonianza.
Per elaborare la sua perizia, inoltre, il perito può eventualmente ricorrere ad alcuni strumenti di indagine. Dalla storica “macchina della verità”, il poligrafo (in inglese Lie Detector), che misura le reazioni fisiologiche (sudorazione, battito cardiaco, pressione sanguigna, respirazione) dell’impostore ai quesiti posti dall’interrogante, ossia alterazioni somatiche innescate dall’emozione provata in quel momento, alle tecniche più recenti come i test psicologici, la SVA (Statement Validity Analysis) e la CBCA (Criteria Based Content Analysis), in cui procedura comune è indagare se il resoconto del soggetto contenga un certo numero di criteri, considerati di veridicità, coerenza ed accuratezza. Entrambe le ultime due prevedono, peraltro, la videoregistrazione dell’interrogatorio e sono impiegate efficacemente nei casi di presunto abuso sessuale minorile (Gulotta, 2008).
In conclusione, è bene ricordare che un gesto o una parola non sono sempre e necessariamente segnale di inganno, le conoscenze che possediamo in materia devono rigorosamente essere rapportare al contesto socio-culturale, ai fattori ambientali nonché alla personalità e allo stato psico-fisico del soggetto con il quale ci troviamo ad interagire. Un’aula di tribunale, la presenza dell’Autorità, sentirsi sotto esame, costituiscono già di per sé elementi ansiogeni che possono influenzare le reazioni emotive, quindi i gesti e le parole, del nostro utente. Nella giustizia italiana, i segnali verbali e non verbali di menzogna non rappresentano una prova effettiva, tuttavia la loro valutazione può fungere da stimolo nella conduzione di ulteriori indagini circa il soggetto verso il quale sussiste un sospetto. Allo stesso modo, l’art. 188 del nostro codice di procedura penale (cit. in De Cataldo Neuburger, Gulotta, 2008) non ammette l’applicazione, neppure con il consenso della persona interessata, di tecniche in grado di alterare la capacità di pensare e ricordare autonomamente; di conseguenza mezzi quali il poligrafo o l’ipnosi, benché ampiamente adoperati negli USA, nel campo forense nostrano non sono autorizzati.
Dott.ssa Monica Chiovini
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