Il banditismo sociale nell'era digitale
Pubblicato da Scienze Forensi Magazine in Criminologia · Giovedì 27 Feb 2025 · 22:30
Tags: banditismo, sociale, digitale, conseguenze
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Banditismo sociale nell’era digitale: dalla costruzione dell’eroe criminale al martire sociale, tra narrazioni polarizzate e conseguenze sul clima collettivo
Autore: dr.ssa Donatella Ciarmoli, Psicologa congnitivo - comportamentale
Abstract
Il presente articolo analizza il fenomeno del banditismo sociale e delle narrazioni online polarizzate intorno ad atti di violenza e omicidio, evidenziando come le piattaforme digitali possano contribuire a plasmare l’immagine pubblica tanto delle vittime quanto degli aggressori.
Attraverso l’esame di casi contemporanei, come l’omicidio di Willy Monteiro Duarte in Italia, quello di George Floyd negli Stati Uniti e l’assassinio di Qandeel Baloch in Pakistan, si mostra come i social media e le comunità virtuali creino figure simboliche - dall’“eroe popolare” alla “vittima martire” - o consolidino lo stigma sugli aggressori, influenzando percezioni collettive, tensioni sociali, e potenzialmente il comportamento di individui vulnerabili. Infine, si riflette sulle implicazioni per la psicologia forense, la prevenzione dei fenomeni estremi e la necessità di strategie comunicative contro-narrative per ridurre la legittimazione della violenza online.
1. Introduzione
Il fenomeno del banditismo sociale, tradizionalmente associato a figure criminali che godono di un certo favore popolare all’interno di comunità marginali o rurali (Hobsbawm, 1969), sta conoscendo una profonda trasformazione nell’era digitale. Oggi, le comunità virtuali, i social network e le piattaforme di comunicazione online ridefiniscono i confini tra devianza, consenso e legittimazione della violenza. Questa ristrutturazione è favorita da processi di produzione, condivisione e consumo di contenuti digitali che plasmano la percezione pubblica dei crimini e degli individui coinvolti, siano essi autori o vittime.
Le recenti ricerche in ambito criminologico e mediatico evidenziano come la costruzione sociale della criminalità online sia mediata da dinamiche di “echo chambers” e “filter bubbles”, che favoriscono la polarizzazione delle opinioni e la creazione di narrative semplificate (Brown & Svensson, 2020; Johnson, Bale & Vough, 2021). In tali contesti, figure criminali o vittime di reati gravi possono essere rapidamente elevate allo status di eroi, martiri, oppure demonizzate e delegittimate, a seconda del sistema di valori condiviso da specifiche comunità virtuali. Queste dinamiche di legittimazione o condanna assumono particolare rilievo nei casi di violenza estrema - omicidi, esecuzioni sommarie, delitti d’onore - dove la dimensione emotiva e identitaria gioca un ruolo chiave.
Il passaggio dal bandito locale, percepito come “giustiziere” in lotta contro un potere oppressivo, a un “bandito digitale” o alla costruzione del “martire sociale” è reso possibile dalla straordinaria velocità e capillarità di diffusione delle informazioni online. Studi recenti hanno sottolineato come i social media possano fungere da amplificatore di narrative deviate, rendendo più complessa la distinzione tra cronaca, opinioni e propaganda (Moloney & Decourchelle, 2022; Torres & O’Connor, 2021). Questa complessità si manifesta, ad esempio, quando le piattaforme online trasformano un caso di omicidio in un campo di battaglia simbolico: da un lato, la vittima può divenire l’incarnazione della virtù, della resistenza contro l’ingiustizia o delle tensioni sociali inesplose; dall’altro, gli autori del reato possono essere ritratti come incarnazioni del male assoluto, caricature di un “nemico” contro il quale giustizia, vendetta e indignazione pubblica si sovrappongono.
La letteratura recente in tema di radicalizzazione e estremismo evidenzia poi come tale polarizzazione narrativa possa avere un impatto significativo su individui vulnerabili, favorendo processi di emulazione, imitazione o identificazione con ruoli criminali o vittimistici (Weimann, 2015; Berger & Morgan, 2015). Sottogruppi estremisti o con orientamenti antisociali possono utilizzare tali narrazioni per reclutare membri, rafforzare le proprie convinzioni e legittimare condotte violente, sfruttando il potere simbolico generato da figure socialmente costruite come “banditi-eroi” o “martiri della giustizia”.
L’obiettivo del presente articolo è analizzare come le narrazioni digitali attorno a casi di omicidio ridefiniscano il concetto di banditismo sociale, evidenziando le implicazioni psicosociali e forensi di tali costruzioni simboliche. Attraverso l’analisi di casi recenti, come l’omicidio di Willy Monteiro Duarte in Italia, di George Floyd negli Stati Uniti e di Qandeel Baloch in Pakistan, si mostrerà come le piattaforme online possano trasformarsi in arene di produzione narrativa, influenzando la percezione pubblica, la coesione sociale, le dinamiche di stigmatizzazione o esaltazione, con ripercussioni significative sul clima emotivo collettivo e sui comportamenti di individui potenzialmente fragili. L’analisi integrerà prospettive di psicologia forense, criminologia e studi sui media digitali, offrendo un quadro teorico-applicativo per comprendere un fenomeno di crescente importanza nel panorama contemporaneo.
2. Dalla figura del bandito tradizionale al “bandito digitale”
La figura del bandito sociale tradizionale, descritta in modo pionieristico da Hobsbawm (1969) come un criminale al margine, ma al contempo integrato nella comunità, esprimeva una forma di resistenza al potere dominante. Storicamente, tali banditi erano spesso percepiti come difensori dei deboli e degli oppressi, o interpreti di una giustizia popolare non codificata. In questi contesti, la narrazione emergeva e si consolidava a livello locale, tramite il passaparola, le leggende orali e, talvolta, la letteratura popolare.
Oggi, la medesima dinamica simbolica si trasferisce nello spazio digitale. Il “bandito digitale” non è più radicato in un contesto geografico circoscritto, bensì opera e acquista fama attraverso piattaforme online potenzialmente globali. L’ampia diffusione dei social media e dei forum virtuali permette a figure criminali di acquisire una notorietà istantanea, superando barriere spazio-temporali (Holt, 2013; Lavorgna, 2015). Questo nuovo contesto offre un palcoscenico transnazionale, dove l’immagine del criminale può essere manipolata, costruita e destrutturata in tempo reale, grazie al contributo di comunità virtuali di simpatizzanti o detrattori. Alla base di tale mutamento c’è il potere reticolare della comunicazione digitale, che consente al bandito - o alla sua narrazione - di circolare senza intermediazioni istituzionali.
La letteratura recente in materia di criminalità online e radicalizzazione evidenzia come tali processi di costruzione identitaria siano sostenuti da algoritmi e dinamiche di “filter bubble”, capaci di aggregare utenti attorno a narrative semplificate e polarizzanti (Bail, 2016; Noppe, Flynn, Fu, & De Smedt, 2017). In questo modo, un criminale che agisce nel mondo fisico può acquisire una dimensione digitale ben più complessa, diventando simbolo di ribellione, giustizia privata o presunta autenticità contro un potere corrotto, secondo logiche analoghe - ma aggiornate - al banditismo storico. Allo stesso tempo, la stessa logica si applica alle vittime, che possono essere ritratte come martiri o delegittimate, incidendo su percezioni, atteggiamenti e comportamenti collettivi (Torres & O’Connor, 2021).
È significativo notare che, mentre il bandito tradizionale agiva all’interno di reti comunitarie relativamente stabili, il “bandito digitale” si muove in uno spazio frammentato, dinamico e, soprattutto, interconnesso globalmente. Questo moltiplica le possibilità di ricezione e reinterpretazione delle sue azioni: il racconto criminale non rimane confinato ad un contesto di marginalità contadina o periferica, ma può trovare risonanza in gruppi estremisti, sottoculture online o semplici spettatori in cerca di storie cariche di pathos (Phillips, 2015). In tal modo, si generano narrazioni che non soltanto legittimano o condannano la violenza, ma che possono contribuire alla nascita di nuovi simboli e identità criminali, capaci di influenzare la sfera emotiva, politica e sociale in maniera molto più incisiva rispetto al passato.
Comprendere la transizione dalla figura del bandito tradizionale al “bandito digitale” significa, dunque, riconoscere come l’infrastruttura digitale stia riplasmando i parametri della legittimazione sociale del crimine. Gli studi contemporanei su criminalità, social media e devianza culturale sottolineano la necessità di un approccio multidisciplinare, che includa competenze criminologiche, psicologico-forensi e mediatiche, per cogliere appieno le nuove dinamiche che legano le condotte devianti alla sfera della comunicazione online (Moloney & Decourchelle, 2022; Gerbaudo, 2018). Tale comprensione è cruciale per l’elaborazione di strategie preventive e di intervento che possano limitare la formazione e il consolidamento di tali narrative deviate e potenzialmente pericolose.
3. Esempi di Narrazioni Polarizzate Online
Di seguito vengono presentati alcuni casi di rilevanza mediatica, già ampiamente trattati dalla stampa internazionale e dalla letteratura scientifica, in cui la costruzione di figure simboliche – siano esse vittime trasformate in martiri o autori di reato elevati a “eroi” devianti – è stata amplificata dall’ecosistema digitale. Le vicende qui menzionate sono note al grande pubblico e oggetto di analisi accademiche, giornalistiche e giudiziarie. L’analisi di casi concreti consente di comprendere come il contesto digitale possa favorire letture semplificate ed emotivamente cariche, trasformando episodi criminali in simboli ideologici o paradigmi morali. La rilevanza dei seguenti esempi non risiede tanto nelle specificità storiche o culturali dei singoli eventi, quanto nel modo in cui la narrazione online ne ha determinato una percezione collettiva, spesso distante da considerazioni giuridiche, criminologiche o sociologiche più complesse. Criticamente, occorre sottolineare che le narrazioni emerse non riflettono necessariamente la verità dei fatti, bensì una loro costruzione mediatica, alimentata da bias di conferma, interessi ideologici e dinamiche di polarizzazione (Brown & Svensson, 2020).
3.1 Il caso di Willy Monteiro Duarte (Italia, 2020)
Willy Monteiro Duarte, giovane di origini capoverdiane, fu ucciso a Colleferro mentre tentava di difendere un amico. Immediatamente, la rete ha trasformato il suo gesto in simbolo di coraggio e altruismo. Willy è stato innalzato a figura eroica, martire di una violenza ingiusta e brutale, divenendo veicolo di messaggi sulla necessità di combattere il bullismo e la brutalità gratuita. In parallelo, i suoi aggressori sono stati rappresentati come incarnazioni della prepotenza, del machismo violento, e ridotti a figure caricaturali del “mostro”. Tali narrative hanno alimentato un clima di forte tensione morale: da una parte la vittima come emblema del bene, dall’altra gli aggressori come perfetta antitesi del vivere civile. L’omicidio di Willy Monteiro Duarte, è stato rapidamente trasformato in eroe moralmente incontestabile, vittima innocente e simbolo di coraggio. I suoi aggressori sono stati invece ritratti come “mostri” privi di umanità. Criticamente, va rilevato che questa semplificazione ha tralasciato riflessioni sul contesto socioeconomico e culturale in cui l’evento si è verificato, su eventuali fattori strutturali e sulle dinamiche di gruppo e potere sottostanti la violenza (D’Andrea & De Luca Picione, 2021). La rappresentazione manichea - eroe contro antieroi - può aver enfatizzato la dimensione morale a scapito di una comprensione multidimensionale del crimine. Inoltre, l’elevazione della vittima a martire potrebbe aver innescato reazioni di indignazione e rabbia collettiva, con il rischio di generare spinte verso una “giustizia sommaria” digitale, senza alcuna base nel quadro legale (Torres & O’Connor, 2021).
3.2 L’omicidio di George Floyd (USA, 2020)
L’uccisione di George Floyd a Minneapolis per mano di un agente di polizia non è un caso di banditismo nel senso classico, ma offre un esempio di come la vittima di un crimine possa diventare un simbolo globale. La narrazione online ha trasformato Floyd in un’icona della lotta al razzismo sistemico e alla brutalità della polizia, generando proteste internazionali. Al contempo, minoranze rumorose su Internet hanno tentato di delegittimare l’immagine della vittima, sottolineandone aspetti controversi, reali o presunti, per giustificare o ridimensionare la gravità del gesto omicida. Questo ha polarizzato ulteriormente il dibattito, tra esaltazione della vittima e razionalizzazione del crimine da parte di alcuni gruppi. Online, Floyd è stato ampiamente rappresentato come vittima simbolo di un’ingiustizia storica, mentre coloro che tentavano di delegittimare la sua figura enfatizzando il suo passato o le sue scelte di vita non sempre si fondavano su dati accurati o rilevanti per interpretare il crimine. La dinamica binaria “vittima innocente” vs. “criminale meritevole di punizione” è stata alimentata da retoriche propagandistiche e polarizzanti, riducendo la complessità del fenomeno del razzismo strutturale a una contesa morale tra partigiani dell’una o dell’altra narrazione (Benjamin, 2019; Gray & Hansen, 2020). Da una prospettiva critica, si può osservare come questa semplificazione abbia favorito la cristallizzazione di posizioni estreme: da un lato, l’indignazione globale è servita da catalizzatore per riforme e riflessioni profonde; dall’altro, la delegittimazione online della vittima ha permesso ad alcuni gruppi di reiterare stereotipi e giustificare la violenza, contribuendo alla frammentazione del tessuto sociale.
3.3 L’assassinio di Qandeel Baloch (Pakistan, 2016)
L’omicidio di Qandeel Baloch, celebrità dei social media pakistani, ad opera del fratello in un “delitto d’onore” ha generato narrazioni ambivalenti online. Da un lato, Baloch è stata dipinta come una vittima eroica, simbolo dell’emancipazione femminile e della lotta contro il patriarcato. Dall’altro, fasce conservatrici online hanno ridotto la vittima a una figura provocatrice, delegittimandone la moralità e, di fatto, normalizzando la violenza subita. Questa polarizzazione mostra come il digitale possa amplificare narrazioni di “colpa” e “giustificazione” del crimine, con effetti di radicalizzazione dei punti di vista. La morte di Qandeel Baloch, influencer e icona mediatica, uccisa dal fratello con la giustificazione del “delitto d’onore”, ha scatenato discussioni internazionali sulla libertà femminile, il patriarcato e la violenza di genere. In rete, la vittima è stata talvolta raffigurata come simbolo della resistenza femminile a un sistema oppressivo, mentre i detrattori, facendo leva su nozioni conservatrici di morale e decoro, hanno legittimato l’omicidio come conseguenza inevitabile della sua “provocazione” digitale (Cheema, 2018). Da una prospettiva critica, è evidente come l’ambiente online abbia funzionato da cassa di risonanza per posizioni diametralmente opposte, creando una dialettica tossica in cui la valutazione del reato si è intrecciata con giudizi di carattere morale, identitario e religioso, senza una reale comprensione delle dinamiche socio-culturali che hanno portato all’omicidio. Questa bipolarità narrativa rischia di appiattire la discussione sullo status della donna nel contesto pakistano, riducendo la complessità del fenomeno a una banale contrapposizione di valori (Weimann, 2015).
Gli esempi appena riportati dimostrano che la narrazione online, lontana dall’essere un semplice riflesso neutro degli eventi, li rielabora e li restituisce al pubblico in forma emotivamente amplificata, semplificata e potenzialmente fuorviante. Mentre questa dinamica può contribuire a mobilitare risorse e attenzione su fenomeni altrimenti trascurati, rischia, allo stesso tempo, di ridurre la comprensione critica degli stessi. L’approccio binario—eroe/martire vs. assassino/demone—trascura le dimensioni culturali, storiche, psicologiche e strutturali del crimine, ostacolando una riflessione più articolata (Johnson, Bale & Vough, 2021). Il risultato può essere un clima sociale teso, che oscilla tra indignazione morale e giustificazione violenta, mentre la complessità del fenomeno criminale viene fagocitata da narrazioni partigiane incapaci di produrre comprensione, prevenzione e giustizia informata.
4. Meccanismi psicologici e influenza su individui vulnerabili
La diffusione di narrazioni polarizzate e la costruzione mediatica di figure criminali o vittime-eroi non è solo un fenomeno comunicativo, ma anche psicologico. Le modalità con cui le comunità online interpretano e “rinarcano” un omicidio, producendo figure simboliche, possono influenzare profondamente le credenze, gli atteggiamenti e i comportamenti di singoli individui, soprattutto se particolarmente vulnerabili a dinamiche di identificazione e radicalizzazione.
In primo luogo, il contesto digitale agevola la creazione di “bolle informative” in cui gli utenti si espongono quasi esclusivamente a contenuti che confermano la loro visione del mondo. Queste dinamiche, note come “filter bubbles” ed “echo chambers” (Bail, 2016), favoriscono l’intensificazione delle emozioni e la riduzione della complessità degli eventi. L’individuo vulnerabile, già alle prese con insicurezze identitarie o fragilità emotive, può così incontrare narrazioni che legittimano violenza, vendetta o giustizia sommaria, interiorizzando tali messaggi come soluzioni plausibili a frustrazioni personali o sociali.
Inoltre, la presenza online di gruppi estremisti o deviazionisti - che utilizzano casi di cronaca violenta come simboli per alimentare retoriche di “noi contro loro” - può attrarre soggetti in cerca di appartenenza e scopi più ampi (Weimann, 2015; Noppe, Flynn, Fu, & De Smedt, 2017). La figura del “bandito digitale” o del “martire sociale” diventa dunque un catalizzatore, un punto di riferimento su cui proiettare aspirazioni, rabbie, paure o desideri di rivalsa. In questo quadro, la radicalizzazione psicosociale non avviene soltanto per mezzo di ideologie strutturate, ma anche attraverso narrative frammentarie e memetiche, facilmente fruibili e condivisibili (Gerbaudo, 2018; Moloney & Decourchelle, 2022).
Da un punto di vista clinico e forense, questi processi di influenza psicologica costituiscono una sfida complessa. La psicologia forense e la criminologia non possono più limitarsi a considerare esclusivamente i tratti di personalità, le motivazioni individuali o i contesti sociali immediati: devono prendere in esame anche l’ambiente digitale in cui tali narrazioni si formano e circolano (Phillips, 2015; Johnson, Bale & Vough, 2021). Una valutazione completa del rischio criminale, della predisposizione alla violenza o alla solidarietà verso cause devianti, richiede quindi di mappare le reti online, comprendere le dinamiche di gruppo virtuali e identificare i segnali precoci di adesione a narrative potenzialmente pericolose.
In definitiva, la comprensione dei meccanismi psicologici sottostanti all’influenza delle narrazioni online - dall’emulazione di gesti estremi alla legittimazione della violenza come forma di “giustizia” - risulta cruciale per sviluppare strategie di prevenzione, intervento e riabilitazione. Questa prospettiva integrata consente non solo di proteggere individui vulnerabili dalle ricadute più drammatiche di tali dinamiche, ma anche di promuovere un clima culturale e informativo più critico, consapevole e responsabile.
5. Implicazioni per la psicologia forense e prospettive di intervento
Le dinamiche fin qui analizzate sollevano questioni rilevanti per la psicologia forense, chiamata ad ampliare i propri strumenti e competenze per comprendere a fondo le influenze esercitate dalle narrazioni digitali sulla formazione della volontà criminale, sui processi di radicalizzazione e sulla percezione sociale del crimine. La tradizionale valutazione peritale, incentrata sul profilo psicologico dell’individuo, deve oggi integrarsi con l’analisi del tessuto virtuale in cui il soggetto è immerso (Phillips, 2015; Johnson, Bale & Vough, 2021)
Una prima implicazione riguarda l’elaborazione di modelli valutativi complessi, capaci di mappare la rete di contenuti online che l’individuo frequenta: gruppi chiusi, forum, pagine social e canali di messaggistica istantanea dove si formano e si consolidano narrazioni deviate o violente (Moloney & Decourchelle, 2022). L’analisi di questi spazi digitali può aiutare i professionisti forensi a identificare precocemente segnali di radicalizzazione, captando il ruolo che la costruzione di “eroi criminali” o “vittime martiri” ha nel fornire giustificazioni morali, rafforzare convinzioni pericolose e normalizzare la violenza (Bail, 2016; Brown & Svensson, 2020).
In secondo luogo, la psicologia forense dovrà lavorare in stretta sinergia con criminologi, esperti di social media e forze dell’ordine per sviluppare strategie d’intervento efficaci. Ciò potrebbe includere programmi di prevenzione basati su una più profonda comprensione dei processi di identificazione sociale e della vulnerabilità emotiva di alcuni soggetti. Ad esempio, identificare individui esposti a narrative tossiche online consente di attuare interventi psicoeducativi o terapeutici personalizzati, in grado di ridurre il rischio di emulazione o adesione a gruppi devianti (Noppe, Flynn, Fu, & De Smedt, 2017; Weimann, 2015).
Inoltre, la questione della responsabilità delle piattaforme digitali è cruciale. Politiche di moderazione più attente, algoritmi capaci di limitare la diffusione di contenuti estremisti e sistemi di segnalazione più efficaci potrebbero ridurre la circolazione di narrazioni polarizzanti e violente, limitando così il potenziale impatto sulla psiche degli utenti vulnerabili (Torres & O’Connor, 2021). Questo approccio, tuttavia, deve essere bilanciato con il rispetto della libertà d’espressione, spingendo verso un dialogo costante tra giuristi, eticisti e psicologi forensi.
Infine, l’elaborazione di “contro-narrative” costruttive e informate, che offrano una lettura critica dei fenomeni e promuovano la comprensione multifattoriale del crimine, rappresenta una prospettiva di grande importanza (Gerbaudo, 2018; Gray & Hansen, 2020). Queste contro-narrative potrebbero trarre spunto dalla ricerca scientifica, dalle testimonianze di esperti e dal confronto tra diverse discipline, al fine di creare uno spazio di riflessione più ampio, meno reattivo e più razionale. In tal modo, la psicologia forense non si limiterebbe a intervenire ex post, nella fase giudiziaria, ma svolgerebbe un ruolo proattivo nella prevenzione della radicalizzazione online e nel contenimento del banditismo sociale digitale.
6. Conclusioni
L’analisi delle dinamiche che trasformano un crimine violento in un evento simbolico all’interno dello spazio digitale rivela un fenomeno complesso e multidimensionale. La costruzione del “bandito digitale” o della “vittima martire” attraverso narrazioni polarizzate rappresenta, da un lato, un tentativo della collettività di dare senso a eventi traumatici e, dall’altro, un potente fattore di deformazione della percezione della realtà. La rappresentazione narrativa del crimine - semplificata, emotivamente caricata e spesso priva di adeguato contesto - è in grado di influenzare il clima emotivo, le attitudini dell’opinione pubblica e persino il comportamento di individui particolarmente fragili.
Nel contesto dell’era digitale, la comprensione e la gestione di questi fenomeni richiedono un approccio integrato e interdisciplinare. La psicologia forense è chiamata a superare i confini della consulenza sui singoli casi, confrontandosi con la dimensione collettiva e comunicativa del crimine, che si nutre di narrative condivise, simbologie e retoriche online. Allo stesso tempo, criminologi, sociologi, media studies scholars ed esperti di comunicazione digitale devono cooperare per sviluppare modelli interpretativi più ricchi, capaci di cogliere come la diffusione rapida e globale dei contenuti online modifichi i processi di costruzione della reputazione criminale o vittimaria (Moloney & Decourchelle, 2022; Phillips, 2015).
Da un punto di vista operativo, le conclusioni di questa analisi suggeriscono la necessità di sviluppare metodi di valutazione e intervento più avanzati: (a) Valutazione del contesto digitale: Introdurre in ambito forense strumenti di analisi dei media digitali in grado di delineare mappature delle community online, identificando i cluster narrativi e le reti di diffusione di contenuti estremisti o polarizzanti (Bail, 2016); (b) Prevenzione e psicoeducazione: Elaborare programmi di prevenzione e sensibilizzazione che aiutino i giovani, gli utenti vulnerabili e la cittadinanza in generale a sviluppare capacità critiche, distinguere tra fatti e narrazioni manipolate e riconoscere segnali di radicalizzazione emotiva e cognitiva (Weimann, 2015; Noppe, Flynn, Fu, & De Smedt, 2017); e (c) Contro-narrative e responsabilità delle piattaforme: Promuovere contro-narrative informate e sfumate, attingendo alle conoscenze accademiche e alla ricerca scientifica, e dialogare con le piattaforme digitali per implementare politiche di moderazione più sensibili, volte a ridurre la virulenza di contenuti tossici, senza compromettere la libertà di espressione (Torres & O’Connor, 2021).
Sul piano teorico, i risultati di queste riflessioni invitano a ripensare concetti chiave della criminologia, della psicologia e degli studi sui media. Il banditismo sociale, originariamente studiato in contesti storici e geografici specifici, dimostra una sorprendente plasticità nell’ambiente digitale, in cui le categorie tradizionali di eroe, criminale, vittima e giustiziere vengono costantemente riconfigurate dalle community online. Se, in passato, la comprensione del crimine come fenomeno sociale implicava l’esame di codici culturali, strutture di potere e dinamiche di classe, oggi occorre includere la dimensione reticolare e algoritmica della comunicazione digitale, che moltiplica i punti di vista, le memetiche e le micro-narrazioni con una velocità e un impatto senza precedenti (Gerbaudo, 2018; Gray & Hansen, 2020).
In definitiva, comprendere la costruzione delle figure criminali e vittimarie nell’era digitale significa non solo ampliare l’orizzonte analitico, ma anche assumere una prospettiva etica. Senza un impegno consapevole e multidisciplinare, esiste il rischio di lasciare che le narrazioni polarizzanti determinino l’opinione pubblica, consolidino tensioni sociali e alimentino processi di radicalizzazione. La sfida più urgente per la psicologia forense, la criminologia e le scienze sociali sta nel prendere parte attiva a questo dibattito, fornendo strumenti critici, dati empirici e modelli teorici in grado di rispondere a un fenomeno in rapida e costante evoluzione.
Riproduzione riservata
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